giovedì 8 gennaio 2009

Diavoli, diavolesse e diavolerie in Romagna

Nei racconti popolari della Romagna un posto di rilievo è dedicato agli esseri fatati.
Uno studio pubblicato nel 1927 da Nino Massaroli (''Diavoli, diavolesse e diavolerie in Romagna'') rappresenta quasi sempre la fata, ''quale fiorisce nelle novelle del focolare romagnolo, sotto forma di una veccia-vecchina; pulita, linda, dall’aria casalinga e simpatica di nonnina (…) Essa ha un preciso e gentile incarico, un esatto compito: disfare i malefici delle streghe; difendere le creature prese di mira dai geni del male, dai mostri della notte (…) Le fatine romagnole amano mostrarsi sotto forme piccolissime (…) La fata romagnola abita nella cappa del camino, sulla quercia dell’aia, nei pignattini del pagliaio'' (il pagliaio romagnolo s’erge sull’aia a forma conica retto da un’asta interna, sulla cui cima mettono un orinale od un pignattino per scongiurare le streghe).
Le fate romagnole dispensano protezione in particolare ai bimbi appena nati. Per ricevere la loro benevolenza occorreva svolgere vari rituali scaramantici come quello di offrire ''pani bianchi o rosate focacce (…) durante il loro passaggio, che in vari luoghi dell’Alpe di Romagna, avviene al vigilia dei morti, o la notte di Natale o dell’Epifania oppure recitare paròl faldédi'' (parole fatate) ''ed anche formole d’invocazione che in Romagna Toscana usavano dire a propiziarsi la fata del mattino nel mettersi in viaggio, e che vive tutt’ora in bocca ai fanciulli romagnoli: Turana, Turana -
Rispondi a chi ti chiama -
Di beltà sei regina -
del cielo e della terra -
di felicità e di buon cuore''


Alle fate è infine dedicato un racconto ambientato nelle colline fra Castrocaro e Faenza:
''Sotto Monte Sassone, accanto ai ruderi del castello della Pré Mora (Pietra Mora), nel banco dello spungone sullo strapiombo della voragine del rio della Samoggia, fra le colline a monte di Faenza e Castrocaro nella zona di demarcazione dell’antico confine fra la terra del Papa e quella del Granducato, sono scavate le quattro grotte delle fate (chiamate anche busa – buca - e camaraz – cameraccie). Questa pietra era un prodigioso palazzo, nei lontani millenni delle Fate che lo disertarono quando l’uomo non credette più alla poesia, ma vi lasciarono, pegno del ritorno, i loro magici telai d’oro, su cui l’anima tesseva le canzoni che nessuno sa più ! E perché l’uomo non ne facesse sua preda, confidarono la guardia dei telai a un biscione che sibila minacce e con un soffio precipita nella voragine le ladre scalate, quando mai tentassero le porte inviolabili''. [L. de Nardis, ''La Piè'', 1925]

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